Le navi dei veleni

Sin dagli anni Settanta, complice la carenza legislativa nazionale e internazionale e la pressoché totale assenza di impianti di gestione in sicurezza, il nostro Paese fece ricorso al dumping ambientale per liberarsi dei propri scarti industriali. Il Sud del mondo diventò il principale destinatario delle sostanze più velenose e più costose da smaltire.

Amantea, Incontro pubblico sulle navi dei veleni (2009)

Negli anni Ottanta le proteste ambientaliste e dei Paesi vittime dei traffici spingono le Nazioni Unite e i Paesi esportatori a riprendersi i rifiuti: partirono dall’Italia diverse navi con il compito di rimediare al grave imbarazzo internazionale. Tra queste la Jolly Rosso, la Zanoobia, la Karen B vengono ingaggiate dal governo italiano per rimpatriare le sostanze tossiche esportate: verranno ricordate come le navi dei veleni. Altra vittima eccellente dei trafficanti di rifiuti è il mare Mediterraneo. Qui ci finisce di tutto, a cominciare dagli scarichi industriali. Per esempio, con le cosiddette navi a perdere, cioè scafi affondati volutamente insieme al loro carico di morte: un salto di qualità nella strategia criminale, perché si truffa l’assicurazione e si fa piazza pulita in un colpo solo di scorie tossiche e radioattive. Dagli anni Ottanta, come spiegano i tanti magistrati impegnati nel difficile lavoro di indagine, si muove su uno scenario internazionale una vera e propria holding con forti agganci economici ed istituzionali nei diversi Paesi. Grazie al coinvolgimento di imprenditori, faccendieri, massoni, pezzi di servizi segreti deviati, esponenti politici e criminalità organizzata prende piede quello che Legambiente, Wwf e Greenpeace definiscono “intrigo radioattivo”. Sta di fatto che sono tante le navi che affondano in maniera sospetta, senza lanciare may day, con carichi e destinazioni sospette. Navi che scompaiono dai radar, insieme ai loro equipaggi, senza motivo e proprio nei punti più profondi dello Jonio o del Tirreno. Navi che secondo testimonianze e documenti investigativi risultano essere state caricate di rifiuti tossici e/o radioattivi. Fino ad oggi non si è mai recuperato alcuno dei relitti sospetti e nessuno sa quali misteri nascondano.

Secondo alcune fonti istituzionali sarebbero 55 le navi affondate per occultare rifiuti tossici. Secondo la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIII legislatura sarebbero invece 39, inabissate tra il 1979 e il 1995. Di una di queste, la Rigel, inabissata il 21 settembre del 1987, la magistratura ha accertato in tre gradi di giudizio l’affondamento fraudolento e la corruzione dei doganieri; come molte altre navi affondate trasportavano blocchi di cemento e granulato di marmo, sostanza capace di schermare le radiazioni. La Rigel è affondata al largo di Capo Spartivento, provincia di Reggio Calabria, in un punto ben preciso: nessuno fino ad oggi ha provato a recuperare il relitto.

Altre navi affondate in maniera sospette sono la Nicos 1, la Mikigan, la Four Star I, la Anni, la Rosso (spiaggiata ad Amantea), la Alessandro I, la Marco Polo, la Korabi Durres.

La Direzione investigativa antimafia, in un documento del 2001, accerta che dal 1995 al 2000 sono scomparse nei mari del mondo ben 637 navi, di cui 52 nel Mediterraneo. Legambiente, comparando varie fonti, ha contato almeno 88 navi che giacciono nei nostri fondali.

Gli anni Novanta sono anche quelli in cui una società, la Odm, pubblicizza e propone a diversi Paesi la possibilità di smaltire scorie nucleari attraverso dei siluri da sparare nelle profondità marine. La domanda che ci poniamo è se questo piano sia stato o meno effettivamente implementato.

Come è emerso in diverse inchieste, spesso ai traffici di rifiuti si sono intrecciati quelli delle armi: con ogni probabilità, proprio indagando su una di queste piste in Somalia sono stati uccisi nel 1994 la giornalista RAI Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin.

Un'altra morte che si sospetta possa essere legata alle navi affondate nel Mediterraneo è quella avvenuta nel dicembre del 1995 del Capitano di fregata della Marina militare italiana a Reggio Calabria, Natale De Grazia, che indagava proprio su quei misteri nel pool guidato dall'allora sostituto procuratore Francesco Neri. Natale De Grazia aveva pazientemente messo in fila i punti di affondamento di diverse di quelle navi e acquisito le coordinate di alcune di esse, come la Rigel. Ne aveva quindi tracciato le possibili rotte e, verosimilmente, la notte in cui morì – a soli 39 anni – era sulla strada per bloccare la partenza di una motonave, la Latvia, ormeggiata nel “porto delle nebbie” di La Spezia.

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